sabato 11 dicembre 2010

¿Quién puede matar a un perro?

Immaginatevi la scena, nipotini miei.
Interno notte, due candele profumate, i resti di una scrivania imitazione Luigi XIV che scoppiettano nel caminetto. Fuori c’è buio e c’è silenzio, per un sacco di chilometri, c’è un vaghissimo odore di gomma bruciata. Sediamo sul tappeto a sorseggiare cioccolata e chiacchierare del più e del meno.
A un certo punto Tiziano se ne esce con la sua proposta.
Propone di macellare Basil, con la scusa ufficiale che mangia troppo e non serve a un cazzo.
Basil non è il mio cane, non è il cane di Federico e non è il cane di Marco. È il cane di Ivan e Ivan è morto o qualcosa di peggio. Le voci sulle spoglie animali come possibili vettori del contagio non sono ancora in giro, dunque in teoria nessuno è lì per opporsi con la violenza.

Marco lo conosco da tipo quindici anni, qualche volta ve ne ho pure parlato. Quando scrivevo “un mio amico dice questo e quello sulla rappresentazione degli uomini di scienza come padri-patriarchi nell’horror eccetera” spesso mi riferivo proprio lui. Non è uno stupido e nemmeno una cattiva persona, posso garantirlo, ma è rimasto fuori per un sacco di tempo prima di arrivare qui, solo e praticamente disarmato.
Abitava al Casaletto con la madre. Si è occupato di lei talmente a lungo che una volta arrivati all'inevitabile scavarle la fossa in giardino era diventato imprudente. Alla fine l'ha lasciata nella vasca da bagno e ha provato a raggiungere il Serpentone, perché girava voce che lì se la passassero meglio che in centro, con l'elicottero, le mine e tutto il resto. Per quanto ne sappiamo in effetti è così, ma questo più che altro costituisce un ottimo motivo per tenersi alla larga, visto che i posti sicuri sono anche esclusivi. Corviale infatti è diventato così esclusivo che due tipe di guardia ai cancelli hanno convinto Marco a ingranare la retro sparandogli addosso. Per raggiungerci al porto quel poveraccio si è fatto tutta la Portuense, a piedi lungo l'ultimo terzo del tragitto. Questo significa che il mio amico ha camminato attraverso un'area di tipo 200 ettari piena così di centri commerciali. E che si è preso lo Spavento, ovviamente.
Tiziano gli ha messo in testa che il corpo di Basil, insieme a quel che resta del suo mangime, ci permetterebbe di restare in casa per un paio di settimane in più. Niente al mondo inorridisce Marco più della prospettiva uscire di nuovo e a quanto pare quindici giorni corrispondono giusti giusti alla sua idea di futuro.

Insomma, lo stronzone propone di mangiare Basil e Marco fa finta di pensarci su con un certo tormento. Pare ci provi sul serio, a lottare contro la paura che gli è venuta della luce del sole e di tutte le cose che fanno più rumore di una conversazione sommessa, ma quando frigna un consenso afflitto nessuno simula sorpresa.
Siamo seduti in cerchio e per qualche motivo è implicito che si debba votare in senso orario, sicché dopo Marco tocca a Federico. Se anche lui è d’accordo su questa cosa di scannare Basil la mia opinione non avrà più alcuna importanza.
Beviamo la mia cioccolata, dalle mie tazze, nel mio salotto, eppure conto quanto l’ultimo degli ospiti.

Non saprei indicare il momento preciso in cui ho smesso di essere il capo, me ne sono accorta solo da un paio di settimane.
Non mi stanno più a sentire, quando parlo si distraggono.
Anche Marco si distrae. Come vi ho detto è intelligente, ma non in quel senso: non capisce che ogni volta che perdo una goccia di autorità lui conta un grammo di meno.
Tiziano mi interrompe proprio. Non lo fa sempre e nemmeno spesso, ma ogni tanto sì. Ha messo gli occhi sul mio letto e sta sempre a dire che lui è alto e che io sono bassa e che il divano nello studio è corto e che il letto è lungo, non la finisce più di rompere i coglioni.
Il letto è mio. Mio nel senso perduto dei possessivi di una volta, mio che me lo sono comprato all’Ikea nel 2010. Le prove della transazione giacciono certamente sul fondo di qualche cassetto e non lo lascerò a nessuno. Specialmente non lo lascerò a Tiziano – Tiziano che ha bussato come un profugo allampanato, tutto stracciato, con la vocina rauca e che invece è un invasore alto, aggressivo, un baritono.

Comunque tocca a Federico.
“Va bene”, dice Federico, “macelliamo il cane”. Non può dire Basil, può dire solo così: il cane.
Nessuno mi guarda come a chiedermi che ne penso. Lo sanno già che ne penso, perché Basil si è acciambellato accanto a me e si è messo a dormire. Il rilievo della sua spina dorsale trema contro la mia coscia, scosso a intervalli irregolari da qualche emozione onirica. Chissà che sogni si inventa l’inconscio innocente dei cani. Chissà la coscienza lercia di un Tiziano, ladro di cioccolata e di letti, chissà il cuore molle di un Marco.

“Macelliamo il cane,” dice Federico, “ma non oggi”.
“Come sarebbe non oggi?”
“Oggi è il compleanno di Ivan. Non è che possiamo ammazzargli il cane nel giorno del suo compleanno”.
Marco finalmente mi guarda. Io lo riguardo e mi metto a giudicarlo più forte che posso fin quando inchioda gli occhi ai lacci delle sue scarpe da basket.
“Ivan ormai se lo mangerebbe crudo, quel cane.” Tiziano sa di sorridere come il malvagio di un film, infatti sorride: “Vivo se lo mangerebbe”.
Federico annuisce: “Se riuscisse a prenderlo...”
“Ci riuscirebbe: è un cane vecchio”.

Lo so cosa state pensando: che vigliacca questa “Zia Agonia”, i cani di qua i cani di là e poi, in un momento del genere, se ne sta zitta e mosca. O magari questo è quello che avreste pensato Prima, magari adesso capite benissimo anche voi che non è questione di coraggio.
Sono un capo decaduto e il mio voto conta come quello degli ospiti. Tre ospiti dicono sì. Se io dico no si farà comunque come vogliono loro, con la differenza che a quel punto sarò stata pubblicamente ignorata. Tutto ciò che adesso è sottinteso – le decisioni si prendono a prescindere dalla mia opposizione - diventerà esplicito. Potranno farmi qualunque cosa a quel punto. Isolarmi, smettere di farmi mangiare, prendersi il mio letto, violentarmi, macellarmi, mangiarmi. Buttarmi fuori dalla casa che ho comprato.
Un tempo il sottosuolo della nostra scala sociale spettava a Federico – l’ultimo arrivato, il più debole, quello zoppo. Ma che vi devo dire? Ha fatto carriera. Quanto a Marco, Marco si è preso lo Spavento e quelli che l’hanno preso non contano mai.

“Ok, forse riuscirebbe a prenderlo,” ammette Federico. “Comunque non c’entra un cazzo. Non è veramente per Ivan che non dobbiamo farlo stasera, è per noi”.
Per noi?” Tiziano ostenta un tono sardonico: “Ti prego, ascoltati quando parli: sarebbe per noi dare da mangiare questa sera a un cane che macelleremo domani?”
“Non ho detto di dargli da mangiare, ho detto solo di non ammazzarlo oggi. Ma non è questo il punto”. Pausa ispirata. “Il punto è che se non ce ne frega più un cazzo del compleanno di Ivan, se non ce ne frega più un cazzo di cose così, allora è finita”.

Simili affermazioni esigono una fastosa risata alla Vincent Prince, nipotini miei. Infatti sono giusto sul punto di esibirmi in tal senso quando mi accorgo che il discorso ha fatto presa su Marco. Se ne accorge pure Tiziano. Marco non ha importanza, come vi ho detto non conta, ma adesso a Tiziano serve un numero per le formalità. Il suo numero Marco ce l’ha ancora.

“Cazzo,” dice Marco. “Non sapevo che fosse il compleanno di Ivan”.
“Ne avrebbe fatti trentuno,” sussurra Federico.
Tiziano mi onora della sua attenzione: “Tu cosa dici?”
“Anche io ne ho abbastanza della cioccolata,” abbasso lo sguardo su Basil. Gli metto una mano sulla testa e lui nemmeno si muove, è uno stupido cane e si sente al sicuro. “Ma farlo questa sera sarebbe davvero troppo da stronzi”.
“Per me va bene pure domani,” Tiziano si alza con tutto il decoro di un padre severo che a questo giro ha deciso di optare per l'indulgenza. “ Però non dategli da mangiare... Se gli date da mangiare giuro che mi incazzo sul serio”.

Il nuovo capo se ne va verso la sua stanza, che poi a voler fare i puntigliosi sarebbe il mio studio.
Lo sentiamo buttarsi sul divano e lagnarsi di quanto è corto. Ci vuole almeno un’oretta perché cominci a russare.
Pure Marco se n’è andato a letto quando Federico soffia su una delle candele. Penso che stia per raggiungerlo e sono terrorizzata.
Ora resterò sola e mi toccherà scegliere. Aspettare l’alba e il sacrificio di Basil, fantasticando l'orrore della prossima portata. Scappare, trascinarmi dietro il cane, abbandonare tutto quello che mi resta. Oppure – come sarebbe più giusto, visto che questa è casa mia - pensare a un modo per prevalere fisicamente su un tizio che pesa il doppio di me, col rischio che Federico venga in suo soccorso. Immaginatevi che casino, quanto rumore. Marco ha paura del rumore, non farebbe niente per aiutarmi.
Federico però non vuole andare a dormire. Zoppica verso di me, si accuccia accanto al cane, mi fissa con tutto il rosso che resta del fuoco riflesso sugli occhiali.
“A Federi', tu che sei sensibile, non dovresti fargli una torta di compleanno al povero Ivan?”
Sbatto in aria una mano molle che significa sciò, via dalle balle, la cioccolata ce l'hai. Il fatto  è che in oltre tre settimane di convivenza Federico non ha mai raccolto una provocazione:se ne resta lì, a lasciarsi odiare con tutta la flemma del mondo. Non mi rimane che allargare i polmoni per fare spazio a un secolo di silenzio.
“Zia,” lui non dice veramente Zia, dice il mio nome. “Io non lo so che giorno è oggi”.
E allora si coagula dentro la mia pancia, insieme al cioccolato. Quel momento di entusiasmo purissimo che passa mentre superi un esame con una botta di culo o quando trovi una stronzata che ti piace davvero e la porti a casa tua e ce la chiudi dentro, non lo dici a nessuno. L' ottimismo, nipotini miei, nella variante mondata da ogni secrezione logica. 
“È il ventisette novembre”.
Federico, perplesso: “Sul serio?”
Guardo a che punto è arrivata la notte lì fuori, oltre il reticolo delle inferriate. Naturalmente non ci capisco un cazzo del sussurro delle stelle, che è roba da pastori e da pirati mica da me. Annuisco comunque:.
“Massimo ventotto”.
Lo so perché ventotto novembre è giorno di blog.

Entriamo nello studio col passo adatto agli assassini. 
I polpacci di Tiziano ciondolano giù dal bracciolo: sono più sottili di come li immaginavo sotto i pantaloni, soffrono il peso dei piedi troppo lunghi.
Federico avanza per primo, passa al suo capezzale, lo accalappia con la cinta del mio cappotto nero e tira forte. Io gli salto sulla pancia, ci affondo le ginocchia, me lo trovo sotto in primo piano. Tutto quello che c’è intorno al suo collo sembra sul punto di schizzare via: la lingua, il pomo d’adamo, le palle degli occhi cercano di scappare e invece vengono verso di me.
Non pesto con la parte che si usa per piantare i chiodi, pesto con quell’altra, quella biforcuta. Basil ha rosicchiato tutto il manico per ammazzare il tempo, quindi sento queste piccole schegge di legno come tanti morsi di insetto sui palmi. Più stringo e più mi mordono.

È difficile e faticoso martellare la gente sana.
Federico dice che i Gialli hanno le ossa più fragili, ma per me è tutta suggestione. L’unica vera differenza è che i sani si oppongono fino all’ultimo respiro. I Gialli sembrano sorpresi – cameriere, c'è un martello nel mio orecchio sinistro! - ma non si capisce se gli dispiace davvero. La loro vita è meno ostinata della nostra, per quello che ci pare meno preziosa. Per quello e perché i sani sanno fare pena. Possono parlare e supplicare, emettere suoni molto più commoventi, non c’è paragone.

Tiziano per esempio fa un sacco di pena. Pena i filetti sanguigni tesi tra le narici e il buco tumido della bocca. Pena l’occhio chiuso dallo smottamento dell’arcata orbitale. Pena il tonfo giù dal divano quando Federico molla la presa. Pena la faccia schiacciata contro il parquet in una posizione impossibile per un invasore con il naso al posto giusto.
Non sono proprio pentita. Vorrei solo essere un po' più paranoica, così non mi verrebbe in mente che potevamo almeno provare a parlarci, che magari era meno cattivo del suo sorriso.

Ecco Marco. In mutande, fermo come una foto imbarazzante nella cornice della porta, terrorizzato dal timbro ottuso del martello e commosso dai rumori umidicci di Tiziano che non ha ancora finito e cerca invano di girare la testa. Marco prende il tempo dell'agonia col suo tic da spaventato, accoppia i polpastrelli del pollice a quelli del medio.
“Perché?”
Lo chiede sinceramente. Non ci arriva davvero, non è colpa sua.
“Perché l'avete fatto?”
Federico ha sostenuto la parte più faticosa e si è fatto male a un pollice. Lo massaggia mentre si gira a parlargli: “Per piacere Marco, vieni a darci una mano.”
“Sì, ti prego,” insisto anche io. Se vede che abbiamo bisogno di lui, che lo preghiamo, si sentirà desiderato e incluso, si tranquillizzerà.
Marco però indica Tiziano: “Si muove ancora... Se lo tocco urlerà”.
Secondo me non è più in grado di urlare, ma non mi piace fare la maestrina: “Va bene, vai di là e chiuditi dentro. Quando smette di muoversi ti veniamo a chiamare, così ci aiuti a trascinarlo in balcone”.
“Poi lo buttiamo di sotto? ” Marco chiude gli occhi. “Voglio dire... Non è che ce lo mangiamo, vero?”
Anche Federico chiude gli occhi.
Provateci voi a reprimere il nervosismo con questi qui che chiudono gli occhi come se dispiacesse solo a loro. Io ci riesco. “Certo che non lo mangiamo,” mi sto ascoltando e sono calma. “Lo buttiamo di sotto e basta”.
“Allora torno dopo,” Marco annuisce mille volte e fa piccolissimi cenni come a dire mi tengo pronto, farò la mia parte, a ciascuno il suo, guarda come li accoppio bene il pollice e il medio.
Mentre sparisce lungo il corridoio, tutto lento, tutto ingobbito, Federico si asciuga il sudore colato sotto il naso e dice qualcosa tipo povero Marco, questa non gli ci voleva proprio.
Io sento le unghie di Basil che entra nello studio. Spunta fuori solo adesso, dondolando la coda. Mi pare strano che non abbia abbaiato.

Immaginatevi la scena, immaginatevi anche questa.
Interno notte, Federico sul divano (lui ci sta abbastanza comodo o perlomeno non si lamenta), niente luce a parte la brace della sua sigaretta. Entro e mi siedo in terra, vicino al cane.
Porto cattive notizie: “Il palazzone è rimasto senza luce”.
“Sei sicura?”
“Dal balcone si vede benissimo,” bisbiglio. “Se succede anche qui sono cazzi amari. Marco ha questo problema che non sopporta il generatore”.
“Non è colpa sua,” Federico solleva gli occhiali sulla fronte per stropicciarsi gli occhi: mai visto un uomo dall'aria tanto stanca. “Poi non è detto che sia un problema di corrente. Forse sono andati via o sono morti”.
“Lo so, però Marco si deve abituare. Non ti sembra?”
Federico resta zitto.
“Che c’hai?” gli faccio.
“Penso a Media World,” mi fa.
“Media World?”
“Non è lontano,” prende una boccata profonda e mi passa la sigaretta, sputando fumo contro il soffitto.
“Possiamo entrarci se usiamo il camper come nel tuo film”.
“Forse, ma Marco…”
“Marco può restare qui”.
“Va bene, però una volta che ci siamo arrivati? Le cose che possono servirci se le saranno già prese”.
“Pensavo ai DVD. Per il tuo blog… Non hai detto che li hai quasi finiti?”.
Fumo e scuoto la testa: “Saranno tutte edizioni italiane. La roba buona in Italia non usciva mica”.
“Qualcosa di decente ci sarà. E se non trovi nulla che ti piace potresti sempre allargare il tema del blog. Trattare un altro genere oltre l’horror, per dire”.
Lo so che è una stronzata, ma non riesco a fare a meno di valutare l’idea. “Tipo l’action,” la butto lì. “L’action mi piace abbastanza”.
Basil solleva la testa, le orecchie diritte e il muso allungato verso la finestra, in caccia di odori minacciosi che noi non possiamo sentire. Non ringhia, però è preoccupato.
Federico si tende e si alza a sedere: “Hai sentito anche tu?”
C’è un rumore in effetti, un guaito, un pianto. Il verso lamentoso di un Giallo, forse lontanissimo.
“È solo uno zombi”, lo rassicuro. “Non riuscirà a entrare”.
“Non chiamarli così, dai”.
“La parola con la zeta è proibita?”
Lui si smarrisce, vedo il bianco dei suoi denti staccarsi dalla penombra solo dopo aver sorriso per prima.
“È solo che quando li chiami in quel modo mi sembra che sia tutto finto”.
Federico tende le dita verso il cane proprio nel momento in cui volevo carezzarlo anche io. Ci tocchiamo per sbaglio: la sua pelle è ruvida e freddissima.
Basil si lascia distrarre dalle coccole e si volta per leccare la prima mano che gli capita a tiro, la mia. Poi si ributta a poltrire col muso tra le zampe anteriori, mascella appiccicata al tappetino rotondo.

A volte ho l'impressione che Ivan non gli manchi per niente, a quel cane, che lo abbia semplicemente sostituito con noi due.
Quando mia madre usciva sola per l'enormità di un'oretta, il suo border collie aspettava sulla porta, infelice e incurabile peggio di Romeo, non c'era verso di consolarlo a crocchette. Senza di lei quel cane sapeva solo soffrire.
Basil nemmeno la guarda la porta e ingurgita tutto quello che gli passi: carne per cani, tonno, riso, cioccolata, pure le prugne.
Con questo non voglio dire che non mi piace o che un giorno potrei mangiarmelo. Non voglio dire niente di speciale
La prossima settimana forse torno a scrivere di cinema. La recensione di un documentario del 2010 sui Video Nasties oppure due parole su qualche classico d’azione.
Dopotutto, chi sono io per giudicare Basil?